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Martedì, 28 August 2018 10:00

Medicina rigenerativa e cellule staminali

ATTUALI APPLICAZIONI IN AMBITO ORTOPEDICO-SPORTIVO


In questo numero di “Performance”, Massimiliano Noseda, medico specialista in Medicina fisica e riabilitazione e in Igiene e medicina preventiva, nonché docente universitario ci parla della medicina riabilitativa e delle cellule staminali, un argomento che non deve spaventare, ma incuriosire soprattutto i numerosi docenti di fitness che possono apprendere nozioni aggiuntive da trasmettere ai propri allievi sulle attuali applicazioni in ambito ortopedico-sportivo, considerando l’alta diffusione delle patologie articolari.


Con il termine medicina rigenerativa si intende una nuova e promettente branca medica che può avere sia la finalità di contrastare il naturale invecchiamento biologico sia quella di trattare differenti patologie di tipo traumatico o degenerativo in modo conservativo, ovvero senza far ricorso alla chirurgia classica come ad esempio quella protesica, che in questo modo può essere procrastinata e in alcuni casi anche evitata. La metodica si utilizza già da anni con successo in vari campi della medicina come l’ambito oculistico dove è largamente impiegata nella cura delle maculopatie su base degenerativa o quello estetico plastico ricostruttivo, sia con finalità volumizzante e riempitiva, sia nella correzione di inestetismi da perdita di sostanza di natura postraumatica o iatrogena. Da circa tre anni è iniziato il suo uso anche in ambito ortopedico-sportivo per il trattamento di diverse patologie traumatiche e degenerative a livello sia osteoarticolare sia muscolotendineo. Può essere impiegata quindi in qualsiasi distretto anatomico nella cura di ritardi di consolidamento, artrosi, condropatie, meniscopatie e tendinopatie prima di ricorrere alla chirurgia classica quando le cure conservative di tipo farmacologo e riabilitativo non hanno portato al successo sperato. Tale metodica si effettua a livello ambulatoriale, prevede la presenza simultanea di un ortopedico e di un anestesista e richiede un tempo medio di esecuzione di circa 40 – 60 minuti. Si effettua in anestesia locale con eventuale blanda sedazione e consiste in un autoinnesto di tessuto adiposo. In pratica si effettua un piccolo prelievo dall’adipe dal paziente, tipicamente dalla regione addominale o dai fianchi, mediante un ago cannula. Il materiale così raccolto viene aspirato in un sistema di filtrazione chiuso e sterile che permette di separare tramite centrifugazione i residui oleosi dalle cellule mesenchimali attivate. Queste ultime costituiscono un particolare tipo di cellula staminale che, reiniettata sempre nella stessa seduta nella regione da trattare mediante guida ecografica o radiologica, è in grado di stimolare nella nuova sede di inoculo i processi riparativi naturali dell’organismo stesso. A scopo puramente esemplificativo se tali cellule vengono utilizzate nel trattamento di una condropatia cartilaginea saranno in grado non solo di trasformarsi in condrociti, ovvero nelle cellule di cui la cartilagine è naturalmente costituita, ma anche di attivare localmente i processi antinfiammatori naturali e di integrarsi armonicamente con le cellule indigene, cioè già presenti in tale sede. La procedura descritta consente di trattare più distretti corporei nella stessa seduta e porta a un miglioramento significativo e progressivo in termini sia di riduzione del dolore sia di recupero funzionale. Inoltre a differenza di altre tecniche, come il prelievo del midollo osseo dalla cresta iliaca precedentemente utilizzato, non c’è perdita di tono muscolare, poiché il soggetto riprende nel giro di un paio di giorni le sue consuete attività lavorative o sportive senza dover sottostare ad alcun periodo di immobilizzazione forzata. Non vengono poi effettuate incisioni importanti nella sede di prelievo e pertanto non sussiste il rischio né di perdita ematica cospicua né di esisti cicatriziali evidenti e indesiderati. Si noti infine che trattandosi di un innesto di tessuto adiposo prelevato dal paziente stesso non vi è neppure rischio di rigetto e che, considerata la mininvasività della metodica, le comuni complicanze ortopediche associate a ogni procedura chirurgica, come infezioni ed eventi vascolari avversi, sono davvero molto rare e ridotte al minimo. L’utilizzo in ambito ortopedico-sportivo delle cellule mesenchimali è quindi non solo possibile ma anche già concretamente attuabile in molte strutture sanitarie ortopedico-riabilitative con indubbio beneficio per il paziente. Tuttavia, proprio la relativa giovinezza della metodica e quindi anche il breve tempo di osservazione dei soggetti a oggi trattati non ci consentono di conoscere la durata reale del trattamento ovvero di sapere se la gestione di ogni paziente richiede sempre e solamente una singola seduta o se nel corso degli anni questa procedura deve essere ripetuta e con quale frequenza. Di certo comunque al fine di ottimizzare e mantenere il beneficio ottenuto l’innesto con cellule staminali mesenchimali deve essere successivamente e costantemente integrato non solo con una dieta personalizzata in grado di controllare il peso corporeo e prevenire il sovrappeso, ma anche con sane abitudini motorie quotidiane e autonome in grado di mantenere localmente forza e trofismo muscolare.

Pubblicato in Performance n. 2 - 2018

“CIÒ CHE MAGGIORMENTE HA DATO UN RISULTATO APPREZZABILE È STATO L’AVERE SOMMINISTRATO, DOPO LO STRETCHING ANALITICO, UNA SEDUTA DI 15 MINUTI DI TECARTERAPIA IN MODALITÀ CAPACITIVA, SUBITO SEGUITA DA UN MASSAGGIO DECONTRATTURANTE NON TROPPO PROFONDO E DA 15 MINUTI DI RIPOSO IN POSIZIONE SUPINA.”

Di quanto sia importante il recupero nel post allenamento e di come si possa massimizzare tale corridoio temporale si è già parlato molto; ma, senza scomodare la curva della Supercompensazione o il concetto di Omeostasi del dr. Cannon, potremmo una volta tanto cambiare prospettiva.
Generalmente si riconduce la durata della seduta allenante a 60’-70’, tempo variabile a seconda dei soggetti, viste le innumerevoli differenze interindividuali. Successivamente all’allenamento, si può riposare (recupero passivo), si può svolgere dell’attività motoria leggera non organizzata come una passeggiata (recupero attivo), si può terminare la sessione con dello stretching, eventualmente anche molto tecnico come il P.N.F.
La pratica clinica quotidiana mi ha portato, insieme al gruppo di lavoro che guido da qualche anno, a provare un approccio diverso al problema “recupero” mostrando risultati davvero incoraggianti. Mi sono infatti chiesto se una seduta di massaggio decontratturante immediatamente post workout, un’applicazione di circa 10’ di Tecarterapia, l’elettrostimolazione, lo stretching passivo, l’abbinamento di tutte queste variabili, o solo di alcune, potesse accelerare in misura apprezzabile i processi di riparazione e ripristino strutturale, permettendo una nuova e altrettanto intensa sessione di allenamento a distanza di 24 ore.

Inizialmente l’attenzione è stata focalizzata sul programma di allenamento e sull’atleta, una scelta non ovvia dato che, nel caso specifico, si è trattato di parametrare il “fortunato” su base quotidiana/settimanale/mensile: appetito, irritabilità, aggressività, ritmo sonno-veglia, insorgenza di crampi, qualità delle urine, ph, emocromo, etc… Il programma (forza submassimale) è stato seguito per 4 settimane, per 5 sessioni su un microciclo di 7 giorni, senza cambiamenti nella struttura, annotando qualunque specifica di ogni sessione per poter confrontare in maniera capillare ciascuna settimana con la precedente. Alla fine di ogni sessione, il volontario è stato sottoposto a una delle pratiche sopra elencate in forma cumulativa e incrociata in maniera incrementale su base giornaliera. Al termine di ogni settimana sono stati valutati l’emocromo, il ph, le urine, lo stato di benessere/malessere generale e, banalmente, il risultato sul campo. La raccolta dati ha coinvolto 3 persone, oltre a me in qualità di supervisore/operatore, ed è stata effettuata la ripresa video di ogni sessione utilizzando la match analysis, in modo da poter eseguire confronti su perizia tecnica, capacità raggiunte, frequenza cardiaca, vascolarizzazione, etc… A distanza di 4 settimane dall’inizio del programma, i dati raccolti sono stati esaminati per trarre delle conclusioni. La settimana successiva all’analisi dei dati, assieme al gruppo di lavoro abbiamo dato inizio a un nuovo progetto su base mensile, identico ma con un nuovo atleta; il tutto si è ripetuto nuovamente, per un totale di 3 casi esaminati nell’arco di poco più di tre mesi. Questi i risultati, incredibilmente simili nei coefficienti percentuali:

tabella7

Riassumendo, ciò che maggiormente ha dato un risultato apprezzabile è stato l’avere somministrato, dopo lo stretching analitico, una seduta di 15 minuti di Tecarterapia in modalità capacitiva, subito seguita da un massaggio decontratturante non troppo profondo e da 15 minuti di riposo in posizione supina. Il massaggio decontratturante come tecnica ausiliaria a fini prestazionali e non terapeutici ha mostrato di apportare immediato sollievo e senso di leggerezza dell’area trattata in differita: le fasce muscolari, aiutate a riposizionarsi in allungamento, non hanno dunque prodotto le classiche retrazioni a livello delle catene cinetiche.

La Tecar come terapia antalgica ha fatto da amplificatore, contribuendo a evitare sin da subito l’instaurarsi di fastidiose infiammazioni sia a livello fasciale che a livello connettivale. Il sonno non profondo ma inserito immediatamente dopo le pratiche elencate, ha donato infine un ulteriore senso di benessere agendo sul cortisolo plasmatico post esercizio in senso migliorativo. Attualmente stiamo pianificando una nuova ricerca che abbia come focus il genere femminile; l’ipotesi di partenza, che vorrei verificare, si orienta verso la ricerca di risultati percentualmente migliori, stante una partenza per natura limitata da un sistema endocrino-ormonale meno premiante.

Pubblicato in Performance n. 2 - 2018

Allenarsi, ognuno lo fa quando può. C’è chi preferisce al mattino appena sveglio per avere una sferzata di energia, chi la pausa pranzo per ottimizzare i tempi e chi infine per liberarsi dallo stress della giornata. Ma spesso ci si chiede: c’è un momento giusto della giornata per allenarsi? La cronobiologia, ossia la scienza che studia i fenomeni periodici negli organismi viventi e il loro adattamento al ritmo della luce e del buio, rivela che anche lo sport ha ‘effetti’ diversi a seconda dell’ora in cui lo si pratica. L’allenamento appena svegli e prima di fare colazione, è il più efficace per bruciare calorie e perdere peso. Se invece si vuole aumentare la massa muscolare, l’ideale è il pomeriggio. Se al contrario si vuole sfruttare il momento della giornata in cui l’energia è al massimo, gli orari pre-serali sono i migliori. Tutto questo deriva dal fatto che l’organismo umano libera alcuni ormoni e regola la temperatura in modo differenziato in vari orari della giornata, seguendo un ben preciso orologio biologico interiore: i cosiddetti ritmi circadiani.

Di primo mattino, si verifica uno dei picchi quotidiani di Gh (Growth Hormone), l’ormone della crescita, e anche di cortisolo, anch’esso molto attivo nel consumo dei grassi.

Nel pomeriggio, invece, si impennano il testosterone (oltre che di mattino tra le 6 e le 7), e l’adrenalina, per cui è il momento giusto per il lavoro di potenziamento e di tonificazione muscolare. Il pomeriggio è anche il momento della giornata in cui i muscoli sono più elastici e al massimo della loro efficienza. Va bene, quindi, lavorare con i carichi elevati. Meglio invece evitare di fare sport quando lo stomaco è impegnato nella digestione. Dopo le 19 i ritmi del corpo cambiano, per predisporre al riposto notturno. La temperatura corporea inizia a diminuire e i livelli ormonali si abbassano. Chi lo desidera può comunque andare in palestra, e allenarsi è meglio che non farlo. Occorre però tener conto del fatto che l’attività fisica, soprattutto se intensa, può interferire con i ritmi circadiani e rendere più difficile il sonno. Meglio quindi prevedere almeno un paio di ore prima di andare a letto, dedicare l’ultima fase della sessione allo stretching e al defaticamento e concedersi un bagno caldo e rilassante. 

Pubblicato in Fitness news

PER I BAMBINI SOTTO I 6 ANNI NON SARÀ PIÙ OBBLIGATORIO PRESENTARE IL CERTIFICATO MEDICO SPORTIVO.

Lo hanno stabilito, in un decreto congiunto, i ministri della Salute Beatrice Lorenzin e dello Sport Luca Lotti. La decisione parte da una richiesta della Federazione Italiana Medici Pediatri (Fimp), che già nel 2015 aveva segnalato la necessità “di escludere dall’obbligo della certificazione medica l’attività sportiva per la fascia di età compresa tra 0 e 6 anni, al fine di promuovere l’attività fisica organizzata dei bambini, di facilitare l’approccio all’attività motoria costante fin dai primi anni di vita, di favorire un corretto modello di comportamento permanente, nonché di non gravare i cittadini ed il Servizio sanitario nazionale di ulteriori onerosi accertamenti e certificazioni”.

Per questo, si legge nel decreto, “Non sono sottoposti ad obbligo di certificazione medica, per l’esercizio dell’attività sportiva in età prescolare, i bambini di età compresa tra 0 e 6 anni, ad eccezione dei casi specifici indicati dal pediatra”.

Va ricordato per quel che riguarda l'Emilia-Romagna, che in questa regione le certificazioni di idoneità per l'attività sportiva non agonistica per i minori e per le persone disabili di ogni età sono rilasciate GRATUITAMENTE dal medico di famiglia e dal pediatra di libera scelta, o su loro richiesta, dai Servizi pubblici di medicina dello sport e vengono registrate direttamente sul libretto sanitario dello sportivo. 

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Martedì, 23 January 2018 16:26

Allenamento mirato per pazienti reumatici

Esercizi a basso impatto traumatico e stretching per migliorare la mobilità articolare.

Artrite è un nome generico che indica diverse malattie articolari infiammatorie. Una di queste è l'artrite reumatoide, una malattia infiammatoria cronica e sistemica del tessuto connettivo la cui eziologia è tuttora sconosciuta, i cui sintomi sono simili ad altre patologie quali il ‘lupus eritematoso sistemico’, l’artrite psoriasica e la fibromialgia. A soffrirne sono soprattutto le donne, a partire dall'età adulta, che “accusano” dolore e gonfiore articolare, rigidità e perdita della mobilità articolare (soprattutto al mattino e dopo l'attività lavorativa/sportiva), deformità articolari (soprattutto alle piccole articolazioni delle mani), febbre, ritenzione idrica, ingrossamento dei noduli, perdita di peso, ipotrofia muscolare e anomalie tendinee. Da notare che dolore, gonfiore, bruciore e indolenzimento interessano contemporaneamente più articolazioni, anche se all’inizio l’artrite reumatoide tende a colpire prevalentemente le piccole articolazioni, come quelle di polsi, mani, piedi e caviglie, per poi estendersi con il passare del tempo ad articolazioni più grandi come spalle, anche, gomiti, ginocchia e persino la mandibola. Scoperta nel lontano 1800 dal medico francese Augustin Jacob Landre-Beauvais, a soffrirne sono oggi circa 400 mila persone in Italia. La malattia ha in genere un andamento ciclico recidivante, passando quindi da periodi molto dolorosi e fastidiosi ad altri dove gli stessi sintomi scompaiono totalmente. Ma è stato riscontrato che i sintomi spesso peggiorano con il riposo assoluto, motivo per cui si consiglia uno stile di vita attivo. Anche l’allenamento in sala pesi, se ben programmato, può essere molto positivo.

L’ATTIVITÀ FISICA PER I PAZIENTI REUMATICI
L’attività fisica per chi è affetto da artrite reumatoide è molto importante perché aiuta a conservare la mobilità articolare, anche se è necessario “rallentare” durante le eventuali fasi di riacutizzazione della malattia. La prevenzione dell’artrosi si basa sul controllo dei fattori di rischio: si dovranno quindi evitare il sovrappeso e le posizione errate dovute da cedimenti strutturali scheletrici che potranno traumatizzare l’articolazione e modificare la postura. Saranno inoltre da limitare le attività ad alto impatto ed i carichi eccessivi e ripetuti. In caso di artrosi conclamata l’attività fisica mirata è in grado di alleviare il dolore e di migliorare la mobilità dell’articolazione. L’allenamento corretto migliora l’aspetto fisico aumentando di conseguenza l’autostima e migliorando l’umore, aumenta inoltre l’elasticità e tiene sotto controllo il peso corporeo (- FAT), migliora l’equilibrio e le capacità funzionali del soggetto. L’allenamento dovrà basarsi sul mantenimento della FFM utilizzando esercizi a basso impatto articolare. Sarà fondamentale il mantenimento o il recupero della mobilità articolare e uno stretching graduale per salvaguardare la salute delle articolazioni. Nell’allenamento in sala pesi quindi, come per qualsiasi altro tipo di allenamento, si inizierà con un riscaldamento muscolare di tipo aerobico prima di dedicarci alla parte centrale dell’allenamento, attenzione però a esercizi ad alto impatto (tipo Run) anche per escludere a monte il rischio di cadute. A contrario dell’osteoporosi lieve, dove invece si consigliano attività a impatto come corsa, camminata in salita e sport con balzi e salti in cui le articolazioni (ginocchio in primis) vengono sovraccaricate, in presenza di artrosi è consigliabile la pratica del ciclismo, nuoto, aquagym e tutte quelle attività dove il muscolo lavora ugualmente ma il ginocchio, anca e caviglia sono in scarico. L’allenamento con i pesi stimola in maniera importante i tessuti (muscolare e connettivo) che vengono rinnovati e irrobustiti, mentre l’inattività li rende sempre più deboli, atrofici edipotonici favorendo anche l’osteopenia oltre all’inevitabile calo di massa muscolare.

I punti chiave per stilare una scheda di allenamento possono essere cosi riassunti:
• Iniziare sempre con un riscaldamento adeguato e a basso impatto traumatico, prediligendo esercizi di mobilità e propriocezione.
• Evitare carichi massimali, anzi iniziare con carichi “moderati”.
• Svolgere un numero di ripetizioni abbastanza elevato (15/20).
• Intensità non troppo elevata che non sovraccarichi troppo l’apparato osteoarticolare, successivamente si potrà aumentare l’intensità anche fino all’80% di 1RM.
• La frequenza cardiaca da utilizzare deve essere media (60/80% FCMax).
• Volume di allenamento medio-elevato, questo per contrastare la rigidità articolare di questa patologia e per creare allenamenti che possano stimolare un maggiore EPOC e di conseguenza una maggiore attività lipolitica, vista l’intensità non elevata non vi saranno rischi di Overtraining.
• La tipologia degli esercizi deve essere prevalentemente Base (pluriarticolari). Distribuire il carico su più articolazioni le solleciterà meno rispetto l’esecuzione degli esercizi di isolamento.
• La tipologia dell’allenamento consigliata è quella a Circuito, meglio ancora se si alterna un esercizio per i distretti superiori ad un esercizio per i distretti inferiori (Top/Down o PHA), questo per alternare i momenti di stress al quale sono sottoposte le articolazioni.
• Praticare discipline Olistiche come Yoga e Pilates, molto utili perché migliorano la propriocezione, il rilassamento, la flessibilità.
• Concludere sempre con una sessione di stretching per preservare la mobilità articolare e l’estensibilità muscolare.
• La frequenza allenante ottimale sarà di 3/4 allenamenti settimanali da 60/75 minuti ma si apprezzano comunque importanti miglioramenti anche con una frequenza allenante inferiore.

Il protocollo ovviamente andrà adattato all'utente in base alle caratteristiche soggettive quali: stadio della patologia, livello di allenamento, capacità motorie. È bene sempre ricordare che nelle fasi “acute” della malattia l'attività fisica andrà moderata, se non totalmente sospesa, in base al parere del medico.

scheda pha

UN OTTIMO SUPPORTO PER QUESTA PATOLOGIA VIENE DALLA NATUROPATIA
Maria Grazia Piazza allieva all’ultimo anno della Scuola di Naturopatia
Dopo una sessione di attività fisica, è indicato un bel massaggio rilassante, che oltre ad avere un effetto benefico per il corpo aiuta anche a livello mentale.
Utilizzo un olio di base, tipo quello di arnica, perché svolge un'azione lenitiva, riduce l’infiammazione e decontrae la muscolatura. Aggiungo all’olio di base, gli oli essenziali di camomilla blu, camomilla romana, lavanda che hanno proprietà antiinfiammatorie, donano sollievo alle articolazioni affaticate e sono un ottimo rilassante dopo l'attività sportiva.
• OLIO BASE: OLIO DI ARNICA 30 ML
• OLIO ESSENZIALE: LAVANDA 4 GOCCE
• OLIO ESSENZIALE: CAMOMILLA BLU 3 GOCCE
• OLIO ESSENZIALE: CAMOMILLA ROMANA 3 GOCCE

 

Pubblicato in Performance n. 1 - 2017

Il decreto ministeriale che conferma l’obbligo di dotazione e impiego dei defibrillatori per le ASD/SSD a partire dal 1 Luglio è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 28/6/2017.

L’obbligo è assolto quando:
a - le ASD/SSD utilizzino un impianto sportivo a carattere permanente dotato di defibrillatore

e quando
b - sia presente una persona debitamente formata all’utilizzazione del dispositivo.

ANCORA UNA VOLTA CI TROVIAMO DI FRONTE AD UNA NORMA NON CHIARA
Sembrerebbe che il campo di applicazione sia circoscritto alle gare e alle attività agonistiche: tuttavia il condizionale è d’obbligo in quanto le finalità dichiarate dalla legge del 2012 che ha introdotto tali novità, rinviando a decreti ministeriali l’emanazione delle linee guida, era quello di salvaguardare la salute dei cittadini che praticano un’attività sportiva non agonistica o amatoriale. Si auspicano quindi ulteriori precisazioni (soprattutto dopo gli oneri non indifferenti che sono stati posti a carico delle società sportive per attrezzarsi!!!).

Semplificando si desume che:
Negli “impianti sportivi” (*nota) deve esserci un defibrillatore (e non necessariamente un operatore in grado di usarlo, quindi a cosa serve?!).
Nel caso di attività competitive (gare) ci deve essere un operatore in grado di usarlo, tranne che per manifestazioni all’aperto (al di fuori degli impianti sportivi) es. se faccio corsa campestre e fatte salve le attività espressamente escluse a basso impatto cardiocircolatorio (allegato).

È invece precisato (finalmente un chiarimento!) che l’obbligo non si applica:
per le attività outdoor (cioè al di fuori degli impianti sportivi)
per le attività a ridotto impegno cardiocircolatorio (come da elenco allegato al decreto)

vedere elenco delle attività escluse allegato PDF

(*nota) DEFINIZIONE di impianto sportivo? Spazio di attività sportiva. Spazio conformato in modo da consentire la pratica di una o più attività sportive.

Scarica Allegati G.U._DEL_28_06_17

Ricordiamo che la legge prevede per i soggetti associativi la possibilità di consorziarsi per adempiere agli obblighi di legge. Se un’associazione sportiva dilettantistica, ad esempio, opera all’interno di una palestra pubblica dove agiscono anche altre, è possibile unirsi con queste per acquistare e utilizzare un defibrillatore in comune. Lo strumento potrà in ogni caso essere impiegato solo da chi ha partecipato agli appositi corsi di formazione (qualunque associato a prescindere dal ruolo che esercita all’interno dell’associazione e/o della societa’ sportiva potrà prendere parte agli appuntamenti formativi).

Qualora ancora non abbiate provveduto, ricordiamo la convenzione ASI per l’acquisto dei defibrillatori ad un costo notevolmente agevolato. Vuoi acquistare un defibrillatore con la speciale convenzione ASI?
1. invia mail a: ; ed a  (entrambe)
2. specifica nell’oggetto della mail: acquisto defibrillatore
3. specifica: codice 237001 CONVENZIONE ASI
4. compila il modulo di richiesta

Download file (clicca per download)

 

Pubblicato in Fitness news
Martedì, 14 November 2017 11:51

Mal di schiena - Mal comune

QUALI SONO LE PRINCIPALI CAUSE E I FATTORI PREDISPONENTI. IL DOLORE È UN PREZIOSO CAMPANELLO D’ALLARME.

La patologia del mal di schiena colpisce tutte le tipologie di persone, dai sedentari agli sportivi, e ha una diffusione così ampia che è seconda solo alle cefalee. La principale causa d’insorgenza della lombalgia è legata a una postura non corretta. Purtroppo lo stile di vita del XXI secolo, tende a far assumere alle persone degli atteggiamenti posturali protratti in flessione che si potrebbero evolvere anche in vere e proprie patologie. La giornata tipica di una persona, infatti, si può riassumere nel seguente modo: al mattino ci si flette in avanti sul lavandino per lavare il viso, successivamente ci si siede a tavola per la colazione, poi ci si sposta in macchina per raggiungere il luogo di lavoro, per continuare la giornata dietro a una scrivania. La sera, tornati a casa, stanchi per la lunga giornata, ci si metterà a tavola per cenare e successivamente ci si adagerà sul divano.

Da questa breve descrizione si può comprendere come la giornata di una persona ‘comune’ sia caratterizzata da prolungati periodi di tempo trascorsi con la colonna vertebrale in posizione di flessione. Questo atteggiamento scorretto causa inizialmente solo delle limitazioni del movimento e della funzionalità, ma se protratto nel tempo in modo ripetitivo, tenderà a creare una modificazione di tutte le curve fisiologiche della colonna vertebrale (in particolar modo causerà una riduzione della lordosi lombare) sino a provocare l’insorgenza del sintomo doloroso. Dopo di che l’insorgere del dolore tenderà ancor più a creare limitazione nel movimento, incrementando così il ‘vizio posturale’ e le problematiche a esso legate. Inoltre la resistenza assiale della colonna vertebrale, che viene calcolata con una semplice formula fisica descritta di seguito, varia proprio in funzione della presenza delle curve fisiologiche. Cioè a una riduzione della lordosi corrisponde una minor capacità di ammortizzare i carichi esterni.

R=N2+1
R: resistenza assiale della colonna vertebrale
N: numero di curve presenti nella colonna vertebrale

IL DISCO INTERVERTEBRALE E IL DANNO
Il disco intervertebrale è costituito da due diverse strutture: l’anulus fibroso e il nucleo polposo. Quest’ultimo è contenuto nell’anulus in una posizione leggermente posteriore rispetto al centro geometrico. L’anulus fibroso è formato da strati concentrici di fibre di collagene disposte ad angolo l’una rispetto all’altra, in modo da formare una fitta rete intrecciata. La totale porzione posteriore dell’anulus è spessa la metà rispetto alla parte laterale e anteriore, così che risulta più debole e naturalmente meno resistente alla protusione o estrusione. Grazie alla sua struttura, l’anulus fibroso permette i movimenti della colonna vertebrale in tutte le direzioni, sebbene in modo limitato. Il nucleo polposo è costituito da una massa gelatinosa trasparente formata in gran parte da acqua. Queste caratteristiche chimiche gli permettono di assumere un comportamento altamente viscoso. L’aumento del volume del nucleo si riscontra facilmente al mattino quando, misurando l’altezza, ci accorgiamo di essere un po’ più alti. La spiegazione è semplice: l’acqua defluita durante il giorno tende a rientrare nel nucleo quando siamo distesi a riposo e quindi in assenza di carichi. La dimensione e la capacità di idratarsi, invece, si riducono quando si eseguono degli sforzi ripetuti in modo rapido: i movimenti veloci schiacciano il nucleo polposo ‘spremendolo’ e non consentono al liquido di rifluire in modo completo, determinando così una riduzione del volume del nucleo. I dischi intervertebrali della zona lombare sono quelli che sopportano un maggior carico e, per questo motivo, sono i più esposti al rischio di lesione. In età giovanile, compatibilmente con una corretta postura, il disco intervertebrale sano in modo particolare il nucleo gelatinoso, permette di distribuire i carichi in modo uniforme su tutte la strutture articolari.

I movimenti della colonna vertebrale, producono uno spostamento del nucleo polposo all’interno dell’anulus: durante la flessione del busto esso si sposta posteriormente, mentre in estensione avviene il contrario. Il nucleo polposo si allontana, in funzione del movimento, dal punto in cui i dischi vertebrali comprimono l’anulus (flessione, estensione o flessione laterale). Quindi durante una postura in flessione, si crea una sommatoria di forze in cui i due corpi vertebrali schiacciano anteriormente il disco intervertebrale, e spingono così il nucleo polposo posteriormente. Ripetendo continuamente questa postura viziata, in un primo stadio si avrà un’alterazione della morfologia dell’anulus (protrusione), sino poi ad arrivare addirittura a un danneggiamento del disco stesso (erniazione: il nucleo polposo fuoriuscire nel canale vertebrale). A questo punto il soggetto assumerà differenti posizioni viziate a seconda della localizzazione della protrusione o erniazione. Quando il nucleo polposo protrude centralmente, infatti, il soggetto tenderà ad assumere una posizione accentuata in cifosi, mentre se il danno interessa la regione postero-laterale del disco intervertebrale, si tenderà ad assumere un atteggiamento scoliotico. Nel caso in cui, invece, si abbia un’estrusione del nucleo polposo (ernia), la funzionalità del disco viene compromessa quasi totalmente proprio perché viene a mancare l’essenziale meccanismo idrostatico che permetteva al nucleo polposo di spostarsi in funzione del carico. Una volta attenuato il dolore acuto, il successo della riabilitazione è basato sulla mobilizzazione precoce della colonna vertebrale, in modo da garantire un giusto grado di estensibilità ed elasticità alla cicatrizzazione dell’anulus. In caso contrario, il tessuto cicatriziale che si viene a formare presenterebbe un’importante rigidità, che non consentirebbe il totale movimento articolare. Allo stesso modo se la cicatrice venisse forzata eccessivamente o in modo troppo rapido, verrebbe ulteriormente danneggiato il disco intevertebrale. Se manteniamo una posizione fisiologica della colonna vertebrale, invece il carico viene equamente distribuito, impedendo così lo sviluppo di sollecitazioni tangenziali che creerebbero pericolosi spostamenti del nucleo polposo. Quindi, se il disco intervertebrale non presenta lesioni che ne alterino il comportamento idrostatico, con il movimento in estensione del rachide si riuscirà a ridurre la spinta posteriore del nucleo polposo, facendolo migrare in avanti. In questo modo si impedirà di lesionare l’anulus e si migliorerà la sintomatologia dolorosa. Quando il nucleo polposo invece si disidrata, come succede quando si invecchia o si abusa con carichi eccessivi, non possiede più una buona capacità di ammortizzare i carichi e si viene a diminuire anche la possibilità che esso ha di ritornare nella posizione di partenza dopo essersi spostato all’interno del disco intervertebrale di conseguenza a una sollecitazione. A questo punto la distribuzione dei carichi non sarà più uniforme, così come la funzionalità del rachide si ridurrà notevolmente.

RICONOSCERE IL DOLORE E LA SUA IMPORTANZA NEL TRATTAMENTO RIABILITATIVO
Il dolore non presenta sempre la stessa natura: si può manifestare in seguito a cause chimiche, meccaniche o a entrambe. Nel primo caso il dolore è prodotto in conseguenza a processi infiammatori e si avverte quando la presenza delle sostanze chimiche irritanti aumenta fino al punto di stimolare – con una certa intensità – le terminazioni nervose nocicettive presenti nel tessuto; in questo caso la sensazione del dolore sarà continua e non diminuirà variando la posizione. Con il progredire della guarigione, il dolore costante creato dal processo infiammatorio sarà sostituito da un dolore intermittente, che identifica quello meccanico. Riprendendo la posizione corretta, si eliminano le alterazioni meccaniche e di conseguenza anche il dolore. Il dolore va pertanto considerato come un prezioso campanello d’allarme che segnala una postura scorretta e invita a correre ai ripari, correggendola nel modo appropriato. Con la comparsa di una protusione, si determina, in un primo momento, un’irritazione della fitta rete nervosa (nervo seno-vertebrale di Luschka) che circonda il disco intervertebrale, causando così un dolore che può interessare la stessa unità funzionale come le altre vicine, anche in assenza di compressione dei tronchi nervosi radicolari. Come risposta allo stimolo dolorifico si instaurerà una contrattura dei muscoli del dorso. La protrusione, nella sua evoluzione, inizierà a irritare anche le radici dei nervi spinali, causando un dolore maggiore, intorpidimento e parestesie distribuite lungo il decorso del nervo interessato. Nel caso del nervo sciatico, per esempio, il dolore dapprima si manifesta centralmente nel rachide e, aumentando d’intensità, si protrae prima sulla natica, poi lungo la coscia, fino ad arrivare, nel momento peggiore, fino al piede. Naturalmente, il miglioramento del paziente è determinato dal percorso inverso della sintomatologia. Se il dolore, quindi, si avvicina sempre più alla linea centrale (fenomeno della centralizzazione), stiamo sicuramente intraprendendo la giusta strada verso la guarigione. Il successo del percorso riabilitativo si ottiene anche nel caso in cui la terapia meccanica produca un momentaneo aumento del dolore centrale, però a discapito di quello distale o laterale.

FATTORI PREDISPONENTI
Il dolore lombare è favorito dalla presenza di tre fondamentali fattori predisponenti: l’errata postura da seduti, la perdita di articolarità in estensione e l’aumento della frequenza in flessione. Per quanto riguarda la colonna vertebrale, la postura corretta da seduti dovrebbe essere simile alla posizione in stazione eretta (devono essere presenti le tre curve fisiologiche). Nella realtà questo non accade: in posizione seduta, solitamente, ci si rilassa assumendo una posizione in flessione. Gli eccessivi atteggiamenti in flessione causano una riduzione dell’articolarità in estensione, un’eccessiva tensione delle strutture passive posteriori (legamenti interspinosi) e un aumento del carico intradiscale nella porzione anteriore del disco intervertebrale. Tale condizione favorisce, in primo luogo, uno spostamento posteriore del nucleo polposo che potrebbe continuare a migrare, se non si corregge l’errata postura, sino a causare un danno del comparto posteriore del disco intervertebrale. Questa è definita da Robin Mckenzie, noto fisioterapista neozelandese, come sindrome da derangement, spostamento del nucleo polposo in conseguenza a una squilibrata posizione dei corpi vertebrali). Al contrario, aumentando sia la frequenza che l’entità dell’estensione del rachide con esercizi specifici, si creano delle forze che facilitano il ritorno anteriore del nucleo polposo, riducendo cosi la tensione che quest’ultimo aveva creato sulla parte posteriore del disco intervertebrale.

© Performance Magazine - Settembre 2017

Pubblicato in Performance n. 2 - 2017
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